Quando ti chiedono cosa hai in mente quando scrivi, cosa vuoi dire con un
libro, quali sono le tue intenzioni nel pubblicare un romanzo, è proprio in
quei momenti che vorresti essere uno che fa un altro lavoro. Il doppiatore,
l’idraulico, il commesso, il pilota d’aerei: ce ne sono migliaia che ti autorizzano
a rispondere cose del tipo: riflettevo se è meglio il 4-4-2 o il modulo ‘albero
di Natale’, pensavo a cosa regalare alla mia fidanzata per il compleanno, mi
chiedevo se nascerà mai un altro Rino Gaetano...
A cosa si pensa quando si scrive un libro? Servirebbe un altro libro per
spiegarlo... A cosa pensa il pittore mentre dipinge? O, per rimanere in ambito
sportivo, a cosa pensa il calciatore mentre gioca? A fare gol, forse? Lo scopo
della scrittura (e dell’arte in generale) non è forse così immediato. Lo scopo
dell’arte... Mi guardo bene dall’affrontare questo argomento così
maledettamente importante in questo post. Fior fiore di studiosi hanno versato
i proverbiali fiumi d’inchiostro per giungere ad una risposta soddisfacente:
fate riferimento ad essi, prego.
Io potrei certamente provare a spiegare cosa passa per la mia testa mentre
scrivo un libro. Sembra una cosa semplice, ma, almeno per me, non lo è. Ha a
che fare col desiderio. Tanti desideri. Il desiderio di raccontare una storia.
Il desiderio di sfogare le emozioni, i sentimenti accumulati nella cosiddetta
vita reale. Il desiderio di creare qualcosa di bello, di piacevole. Ha a che
fare con la paura. Tante paure. La paura di star scrivendo stupidaggini. La
paura che la storia non stia andando da nessuna parte. E poi la paura che la
trama sia sfilacciata, lo stile incerto, il vocabolario scarno, le descrizioni
povere, i personaggi piatti, i colpi di scena prevedibili.
Ma poi... Poi continuo a scrivere. Per finire un libro bisogna essere un po’
testardi. È così facile lasciare le cose a metà (questo credo che valga nella
vita in generale). Scrivo e lo finisco. E se ho fortuna, quando lo rileggo, non
mi fa proprio schifo. Magari mi fa sorridere una o due volte, magari certi
pezzi li trovo assolutamente non disprezzabili. C’è ancora tanto da lavorare.
Taglia e cuci, come un sarto. Si cerca il ritmo, la musicalità delle parole,
dei periodi. Si cerca di mettere in piedi uno spettacolo di magia che non annoi
troppo il lettore. Ci si fa guidare dall’istinto.
Poi il manoscritto viene letto da amici e parenti, gente che dovrebbe essere
ben disposta (ovvio, temono che tu ti vendichi, magari regalando loro una
brutta cravatta a Natale). Bisogna farsi dire la verità, tuttavia. Una dura
verità è meglio di una dolce bugia.
Poi si pubblica (questo è un capitolo a parte). Il
romanzo adesso è finito. Camminerà con le sue gambe.