Alcuni scrittori lavorano con straordinaria intensità
alla scaletta. La scaletta è la loro Stella Polare. La loro Coperta di Linus.
Quell’amico del cuore al quale rivolgersi quando tutto va a rotoli. La scaletta
viene scritta e riscritta, analizzata, rimaneggiata, allungata, accorciata,
approfondita, revisionata.
Al termine della stesura della scaletta, questi
scrittori hanno redatto tantissimi paragrafi, idee, concetti. Ma non hanno
ancora scritto una singola parola del loro romanzo. Quando lo faranno, il fato
dei personaggi è già determinato. A pagina 12 un uomo sta mangiando un piatto
di maccheroni al formaggio. Lui non lo sa, ma a pagina 96 finirà in coma a
causa di un incidente stradale. A pagina 186 morirà e i suoi organi saranno donati
e i suoi familiari diranno al suo funerale: “Era un uomo buono”. Ma l’uomo non
sa nulla di tutto questo e a pagina 12 (praticamente il suo momento di gloria)
si gusta a cuor leggero i suoi maccheroni.
Altri scrittori lavorano senza scaletta. O ne realizzano
una che a malapena può essere chiamata tale. Hanno in mente uno schema, tratti
caratteriali, episodi. Niente scheletro, solo un’ombra. Quando iniziano a
scrivere, questi scrittori non hanno idea di dove arriverà la storia che stanno
raccontando. O meglio, una conclusione possono anche avercela in mente, ma non
è detto che sia quella che i loro personaggi sceglieranno.
Scaletta = Predeterminazione
Nessuna Scaletta = Libero Arbitrio
Il primo sistema presenta, evidentemente, solo
vantaggi. Tutto è già deciso e non c’è spazio per divagazioni o cambiamenti che
possono mandare KO lo scrittore. C’è una strada tracciata: non bisogna fare
altro che seguirla. Il secondo metodo, al contrario, è pieno di insidie. Ci si
avventura in una foresta equipaggiato solo di una bussola. Ci sono sentieri che
si biforcano, sentieri che si rivelano vicoli ciechi. Si sceglie, si va avanti,
si sbatte il muso, si torna indietro cancellando le proprie tracce come se si
volesse depistare un inseguitore, si ricomincia in una direzione diversa.
Domanda: perché uno scrittore sano di mente dovrebbe
adottare il secondo sistema anziché il primo?
Innanzitutto, uno scrittore potrebbe avere il
desiderio di sorprendere, ancora prima del lettore, se stesso.
È un’aspirazione folle? Sedersi a scrivere qualcosa –
senza avere idea di cosa diventerà?
Entrano in gioco due fattori, l’ispirazione e la noia.
Scrivere qualcosa che già si conosce (espandere il punto di una scaletta in un
capitolo, ad esempio), può essere terribilmente noioso. Scrivere qualcosa che
non si conosce (ma che evidentemente è già dentro di noi) è dare voce
all’imprevedibile. Può essere un girovagare infruttuoso, ma può anche essere
una straordinaria fonte d’ispirazione.
L’ispirazione, ossia la qualità che distingue ciascun
scrittore da tutti gli altri, l’unicità della sua voce. Quante sono le note
musicali? E quante melodie esistono?
Il sistema del girovagare (René Ferretti direbbe procedere
a cazzo di cane) è una specie di terapia psicologica che avanza per flussi
di coscienza e associazioni di idee. Bisogna fidarsi del proprio istinto, anche
quando ti fa scrivere emerite stronzate. C’è sempre tempo per cancellare,
correggere, riscrivere (la riscrittura non è importante, di più).
Ci sono infinite vie di mezzo tra questi metodi. Ogni
scrittore ha il suo.
Io, di solito, ho in mente tre cose: l’inizio, la fine
e qualche episodio nel mezzo. Una cosa che ho sempre in mente è un personaggio.
O più personaggi, dipende. I personaggi sono la voce del romanzo, e il romanzo
mi deve parlare. Non sono io che scrivo lui, è lui che si fa scrivere da me.
All’inizio ho più potere contrattuale. Il romanzo è un bambino di poche pagine.
Ma cresce, e a mano a mano che le sue pagine aumentano, i rapporti di forza
cambiano. Da un certo punto in poi, io prendo solo ordini. Divento una specie
di dattilografo.
Dattilografo s. m. (f. -a) Chi per professione scrive a macchina,
spec. negli uffici.