Le diciannove e trenta. Ora di chiusura.
Finalmente.
Spensi il computer e schiacciai il tasto che attivava la
segreteria telefonica. Tirai giù la serranda e andai a pisciare. Mi lavai le
mani. Mentre l’acqua calda scorreva tra le dita insaponate, lo specchio mi
restituì l’immagine di un volto dall’aria malsana. La barba di qualche giorno
spiccava sul pallore generale delle gote e della mascella. Un volto molliccio, i
cui angoli cominciavano a cedere. Le labbra esangui e le borse sotto gli occhi
mi facevano sembrare un vampiro. Scoprii i denti in un ghigno silenzioso,
giusto per controllare se mi fossero cresciuti i canini.
Indossai il cappotto, misi la borsa a tracolla, spensi la
luce, uscii e chiusi la porta a chiave. L’ufficio era vuoto, tutti erano già
andati via. La mia stanza era l’ultima in fondo al corridoio, vicino al cesso.
Se la segretaria dello studio commercialista avesse saputo che udivo i suoi
amplessi con straordinaria chiarezza, forse sarebbe andata a scoparsi da un’altra
parte il cliente delle 14 e 30 del martedì. Lui non l’avevo mai visto in
faccia, sapevo solo che faceva dei versi scimmieschi quando veniva. Lei era
carina, con una pelle morbida non ancora sciupata. Le rare volte che mi
rivolgeva la parola, usava un tono antipatico, come se le ispirassi ripugnanza.
Le altre stanze erano affittate da un architetto e da un web
designer. Staccavano tutti prima di me. Io ero costretto a rimanere inchiodato
alla mia scrivania perché il mio capo, un emerito stronzo, si divertiva a
controllarmi. Telefonava un minuto prima della fine dell’orario di lavoro e se
non sentiva la mia voce, mi tratteneva la giornata dallo stipendio. Più che uno
stipendio, era un’elemosina. Ma ne avevo bisogno. Ero il mica tanto orgoglioso
impiegato della casa editrice “La Bottega dei Manoscritti”. Il solo e unico
impiegato.
I miei compiti erano semplici. Rispondevo al telefono e alle
e-mail. Aprivo la posta e allineavo i manoscritti degli aspiranti scrittori
sull’apposito scaffale. Su ciascun manoscritto apponevo la data d’arrivo: allo
scadere dei sei mesi di permanenza sul suddetto scaffale, addossati gli uni
agli altri come cenciosi mendicanti, li prendevo e li cestinavo. Di quella roba
non leggevo neanche una riga. Pubblicavamo più che altro brevi pamphlet di
scrittori inglesi e francesi del Sette e Ottocento. Materiale visto e rivisto
nelle librerie; materiale fuori dal diritto d’autore. Il capo si occupava della
traduzione, io ideavo quella che pomposamente chiamavo una “nuova veste
editoriale”, e questo era sufficiente a farci prendere i finanziamenti
pubblici.
Aprii la porta dell’ufficio. C’era una ragazza, sul
pianerottolo. I capelli scuri incollati alla testa, il lungo cappotto di pelle
rigato da rivoli d’acqua. Gocciolava, e intorno ai suoi stivali neri s’era
formata una pozza.
“Posso chiederle un'informazione?”, domandò. La sua voce era fievole, eppure nitida.
Chiusi la porta e diedi le mandate. “È tardi. Torni
un’altra volta”.
Presi le scale perché per arrivare all’ascensore avrei
dovuto passarle accanto.
“Lei lavora per la casa editrice?”, mi domandò, scendendo
dietro di me.
Non mi presi il disturbo di risponderle. Cercai l’ombrello
nella borsa. A giudicare da come era ridotta la ragazza, doveva venire giù un
sacco d’acqua. La fermata dell’autobus era solo ad un paio di isolati, ma mi
conveniva andare a prendere la metropolitana anziché rischiare d’aspettare il
bus sotto la pioggia.
Poi sentii la sua mano sulla spalla e mi spazientii.
“Senta…”
“Non sono stato chiaro? L'ufficio è chiuso. Torni un’altra volta.
Adesso ha capito?”
Mi fissò, impietrita, infuriata. “Non c’è bisogno di essere
maleducati”.
“Le auguro una buona serata”. Ripresi a scendere le scale.
Lei mi corse dietro. Odorava di pioggia e, non so, di
qualcosa che non riuscivo ad individuare. Ma non un odore cattivo, anzi. Come
di un’erba esotica, intensa.
“È che non ho ricevuto risposta e allora ho pensato di
passare un istante… Il suo ufficio mi è di strada”.
“Mi dispiace che abbia fatto questa deviazione e che si sia
bagnata per niente”, dissi senza voltarmi.
“Forse lei può darmi qualche aggiornamento, mi chiamo…”
La interruppi. “Lei ha letto le istruzioni sul sito?”
“Sì, certo”.
“Allora avrà letto che, passati sei mesi dall’arrivo del
manoscritto, in caso di mancata comunicazione da parte della casa editrice, il manoscritto s’intende rifiutato”.
Per un istante si udì solo lo scalpiccio delle mie Clarks
(non le scarpe ideali da indossare durante un diluvio) e dei suoi stivali.
Alcuni mesi fa, non ricordavo quanti, avevo archiviato un manoscritto con la
copertina nera e il titolo – neppure quello ricordavo – stampato in grandi
lettere argentee. Mi sembrava fosse un romanzo fantasy, oppure horror, o un
ibrido tra i due generi; mi aveva inquietato, quel manoscritto nero, mi aveva
fatto pensare ad un trattato segreto di negromanzia, o ad un formulario di
stregonerie.
Continuai: “Mi dica: ha forse ricevuto una comunicazione
dalla casa editrice? Un’e-mail, una telefonata, un messaggio, una raccomandata,
un telegramma, un piccione viaggiatore?”
“No, niente”.
Mi fece piacere sentire la delusione nella sua voce. E la
rabbia, e la rassegnazione. “E allora quale conclusione possiamo trarre?”,
ghignai.
“Ma io non ho inviato un manoscritto”.
Mi fermai. Lei era qualche gradino sopra di me. Sembrava più
alta, un’ombra che si allungava dal pavimento al soffitto, che occupava
l’intera tromba delle scale, un torrente d’oscurità che puntava verso di me.
“Scusi?”, mormorai, rimproverandomi per aver sussultato.
Quel tratto delle scale era buio perché la lampadina era bruciata. La ragazza
era quella di prima. Non riuscivo a vedere il suo viso, solo lo scintillio dei
suoi occhi.
Come possono i suoi
occhi scintillare se non c’è alcuna illuminazione, come possono emettere dei
bagliori se non un raggio di luce li raggiunge?
Ignorai questo pensiero. Era razionale, ed era inquietante:
provavo paura, non potevo più negarlo, ma bloccai fuori dalla mente il pensiero
prima che l’inquietudine che esso portava con sé potesse insinuarsi sotto la mia
pelle, farmi rabbrividire.
“Ho detto”, disse lei con voce ferma, “che non ho inviato alcun
manoscritto”.
“Ma allora… allora forse ha sbagliato persona. Cercava…
cercava forse lo studio commercialista?”
“No, cercavo te”. Pronunciò il mio nome.
Mi parve d’essere accarezzato da una mano gelida e rigida,
la mano d’un cadavere.
“E allora cosa… cosa ha inviato, mi scusi?”
Mi passò accanto, sfiorandomi con i suoi abiti bagnati. Il
suo profumo sensuale mi avvolse. I suoi occhi brillavano. Vidi la sua bocca, le
sue labbra rosse, umide.
“Lo scoprirai”.
E con questo fu oltre. Svoltò l’angolo e non la vidi più.
Ascoltai i suoi passi giù per le rampe, mescolati al battito del mio cuore.
Respiravo il suo odore come se mi si fosse incollato agli abiti, alla pelle.
Una goccia mi scese lungo la fronte. L’intercettai con le dita. Non era sudore.
Mi toccai i capelli. Erano fradici. Il mio giaccone era pesante, zuppo, i jeans
bagnati, le scarpe piene d’acqua.
“Ma che cazzo?...”, balbettai.
Non udivo più i passi della ragazza. Rimasi in ascolto,
attendendo invano di udire il portone aprirsi e richiudersi.
Mi sta aspettando,
realizzai. Lei è giù, aspetta me.
Mi voltai, guardai le rampe che avevo appena sceso. I
gradini scomparivano nell’oscurità. Gradini ripidi come pareti scoscese. Le
tenebre calavano verso di me come la nebbia rotola nelle vallate, riempiendole,
inghiottendo tutto. Corsi giù, scivolando e sbandando, rischiando molte volte
di cadere.
L’androne era un antro scuro. Dopo un istante di esitazione,
corsi al portone senza guardare cosa ci fosse in agguato negli angoli bui, cosa
si nascondesse dietro i grandi vasi circolari che abbellivano l’ingresso del
palazzo. Se mi fossi fermato a pensare, a riflettere sull’incoerenza
dell’esperienza che vivevo, mi sarei bloccato. E io non volevo rimanere lì.
Volevo essere fuori. Essere via, lontano.
Mentre attraversavo a lunghe falcate l’androne, spruzzando
di goccioline il pavimento di marmo immacolato, udii squillare il telefono
dell’ufficio. Impossibile, era cinque piani più su. Ma lo sentivo, come se ce
l’avessi accanto. Udii gli squilli, la segreteria scattare, la voce del mio
capo accusarmi d’essere uscito in anticipo, avvisarmi che ero nei guai.
Spinsi il pulsante d’apertura, tirai la maniglia della
porticina che s’apriva nel grande e pesante portone – avevo sempre trovato
singolari e in una certa misura misteriose quelle piccole porte collocate nei
portoni, le visualizzavo come fori situati dentro altri fori e ridevo un po’
sgomento dell’assurdità di quell’immagine – e mi precipitai fuori, il respiro tumultuoso,
il sangue che pulsava nelle tempie.
Il fragore di un tuono mi assordò. La strada, battuta con
violenza dalla pioggia, fu rischiarata da un fulmine, un flash accecante che delineò
con nitidezza ogni forma, ogni contorno. Poi tutto tornò nell’oscurità, e pregai
che quell’oscurità durasse in eterno perché nell’istante in cui la luce fredda
della scarica elettrica l’aveva ricacciata indietro, i miei occhi erano stati
sconvolti dalla visione di una creatura spaventosa, un orrore informe che
riempiva l’intero orizzonte, affondando nel suolo e innalzandosi fino al cielo,
una mostruosità dotata di tentacoli e rostri, artigli e zanne.
Gli scrosci aumentarono d’intensità, le folate di vento mi
gettavano in faccia l’acqua fredda e scura, satura d’un olezzo rivoltante. L’orrore
avanzò verso di me. Non lo vedevo, ma udivo i suoi gemiti. Era un piagnucolio
straziante, supplichevole; esso aveva fame e mi implorava di saziare il suo
appetito, un appetito inappagabile che lo tormentava da ere. Il lamento
dell’essere mostruoso si mescolò ad un trillo acuto, distante, sostituito poi
da un borbottio irato, l’anatema che un dio folle sussurrava a se stesso.
Mi voltai per rifugiarmi nell’androne del palazzo – sciocco
pensare che un portone, in fondo nient’altro che un semplice insieme di assi di
legno, potesse fermare quel gigantesco obbrobrio; ma ci aggrappiamo a qualsiasi
speranza nel momento in cui la mente è sopraffatta dal terrore – quando vidi la
ragazza.
Chiudeva dolcemente la porticina.