Dunque, ho appena finito di scrivere una storia, un
giallo/thriller/noir. La storia di un sequestro. Ho scritto la prima stesura
nel 2011, ma non mi ha soddisfatto pienamente e l’ho chiusa nel proverbiale
cassetto. In questi anni la storia è rimasta con me, perseguitandomi come il
fantasma di una creazione incompiuta che voleva ostinatamente venire alla luce.
Ha insistito così tanto che alla fine ho dovuto recuperare il manoscritto dal
cassetto, soffiar via la polvere e tornare a lavorarci. Non potevo portarmi
dentro quel fantasma per sempre, no?
Ho scritto una seconda stesura. 85.000 parole. All’incirca
300 pagine. Ma non ero ancora soddisfatto (o meglio, era il fantasma a non
essere soddisfatto della forma che gli avevo dato; sanno essere oltremodo
puntigliosi, questi spettri). Se un testo non soddisfa, ci sono due strade: o
si riscrive o si taglia. Io avevo scritto e riscritto e credevo che il
materiale fosse buono e non mi convinceva la prospettiva di una terza
riscrittura; allora ho impugnato le forbici.
Zac! Da 85.000 a 55.000. Un bel taglio netto. La storia,
ridotta all’osso. Più che un testo narrativo, una sceneggiatura. Ultimamente
sono affascinato dal cosiddetto stile behaviorista; Manchette spiega benissimo
di cosa si tratta:
“[Lo stile behaviorista] Parla solo di quel che appare; deduce la realtà dalle apparenze, e non dalla vaga interiorità dei personaggi.” (Jean-Patrick Manchette, “Le ombre inquiete”, Cargo, p.134)
Non ho niente in contrario all’esposizione dell’interiorità
dei personaggi; ho riempito pagine e pagine di interiorità (che non sono le
interiora!) dei personaggi. Però mi piace l’idea – la sfida – di dedurre la
realtà dalle apparenze. In fondo, come possiamo conoscere ciò che frulla
veramente nella testa delle persone? Ci fidiamo di quel che ci viene detto, o
il comportamento è la miglior riprova di quanto affermato?
Va bene, il comportamento. D’accordo. Ma è sufficiente per
illuminare l’anima dei personaggi? Essi non rischiano di essere delle
marionette? Manchette (sempre lui!) scrive:
“I personaggi perseguono i propri interessi, ma realizzano anche qualcos’altro che era nascosto.” (Jean-Patrick Manchette, cit., p.64)
Psicologia da due soldi: le nostre azioni sono condizionate
dai nostri pensieri e – soprattutto – dal nostro inconscio. Ciò che si agita in
profondità trova comunque il modo di affiorare. C’è chi lo fa affiorare
vivisezionando i sentimenti dei personaggi, rivelandone le più lievi e nascoste
sfumature, e c’è chi lo fa affiorare mettendo in scena i gesti, i tic, le
parole, le reazioni fisiche (quanti arrossamenti, quanti tremiti nella voce,
quanti denti digrignati!)
Il gioco è lo stesso; sono solo due modi diversi di giocare.
Il bello è servirsi ora dell’uno, ora dell’altro; offrire al lettore una
riflessione intima e poi colpirlo allo stomaco con una cruda scena d’azione; il
bello è contaminarsi e contaminare.