Non ricordo se fu lui a sedersi vicino a me o se fui io a sedermi
vicino a lui.
Era un vecchietto dall’aria simpatica, con un completo a coste color
ocra e un bastone nodoso come le sue mani.
Non ricordo se mi sedetti lì (o se lui
si sedette lì) perché era l’unica panchina al sole o perché tutti gli altri
posti erano occupati.
Era un tiepido pomeriggio invernale e il piccolo parco, dove nelle
belle giornate amavo andare a sedermi per leggere un libro, era gremito di
mamme e tate con turbe di bimbi al seguito, di anziani e turisti, di perditempo
e accattoni. Un fazzoletto verde ombreggiato dalle chiome di altissimi pini,
tra rovine dell’antica Roma e vialetti d’asfalto screpolato.
Il vecchietto sedeva con la schiena dritta, entrambe le mani appoggiate
sul pomo del bastone, immobile nel suo scaldarsi le ossa al sole. Io leggevo,
pigramente, indugiando sui paragrafi di non so quale libro, cercando d’escludere
dalle mie percezioni gli strilli dei ragazzini e l’abbaiare dei cani.
Non ricordo nemmeno se parlai per primo io o se fu lui ad attaccare
bottone.
“Bella giornata, eh?”
Si comincia sempre così, con chi non si conosce.
“Bella, sì”.
Preso il via, il vecchio dimostrò una gran chiacchiera, come di chi non
abbia nessuno con cui parlare. O era vedovo, o decenni di matrimonio gli
avevano tolto ogni diritto di replica alle dissertazioni della moglie. Forse
aveva lasciato la petulante consorte a casa ed era venuto al parco a godersi un
po’ di pace; e adesso, fatto il pieno di silenzio, voleva parlare.
La sua mente era vivace, il suo vocabolario ricercato. Doveva aver
studiato, doveva essere un cultore delle arti e della sapienza; citava antichi
motti greci e latini, salvo poi non ricordare chi ne fosse l’autore. Della
gioventù rimpiangeva tante cose, ma sopra tutte rimpiangeva la memoria.
“Fin da giovane ho viaggiato senza sosta, ho visitato tutti i luoghi
dove gli uomini hanno depositato, registrato e annotato i più autorevoli principi
della conoscenza e della filosofia; ho percorso i corridoi carichi di scaffali
delle più notevoli biblioteche a partire da quella Apostolica Vaticana, dove il
cardinale Tisserant in persona mi ha mostrato gli incunaboli più rari e dove ho
avuto modo di apprezzare l’arte sublime dei più virtuosi amanuensi; mi sono
recato presso il sito archeologico dell’antica Babilonia, dove ho tradotto dal
sumero le massime dei sovrani incise sugli architravi sgretolati del tempio
segreto di Anu; ho avuto accesso alle sale riservate del Museo Egizio del Cairo
dove, nel corso di una sola notte – il tempo concessomi dai custodi che avevo
corrotto, sono entrato un minuto dopo il tramonto e sono uscito un minuto prima
dell’alba – ho decifrato i papiri rinvenuti nella camera nascosta della Grande
Piramide di Giza; ho tenuto tra le mani i rotoli della Torah più antica del
mondo, custodita nel caveau della CBC Securities a Manhattan, una Torah ancor
più antica di quella rinvenuta di recente nella biblioteca dell’Università di
Bologna…”
E via dicendo, in uno straordinario, abbacinante monologo borgesiano. Mentre
parlava, osservavo nelle rughe del suo volto l’imponderabile quantità di
conoscenze che aveva accumulato in una lunga vita di studi.
“A cosa mi sono serviti tutti questi sacrifici? Possiedo una biblioteca
di ventimila volumi, volumi che ho letto uno per uno, studiato uno per uno, e
non ricordo una singola parola di essi. È come se avessi riempito la mia testa
così tanto da ottenere l’effetto opposto: il vuoto. Sono passato attraverso un
buco nero, come… come si chiama quella bambina, la protagonista di quel libro…”
“Alice?”
“Esatto. Alice. Lei è passata attraverso uno specchio, io attraverso un
buco nero, e dall’altra parte non c’è niente, come se la summa di tutta la
saggezza che ho assorbito nelle mie estenuanti ricerche fosse questa: niente”.
“Un concetto molto zen”, buttai lì.
Il vecchietto riattaccò: “Ho trascorso un anno in Giappone, nei templi
di Hōryū-ji, dove, in una
biblioteca privata, alla luce di una speciale lampada ad ultravioletti, ho
potuto consultare la versione apocrifa del Genji
Monogatari redatta sul verso di una copia del X secolo del Sutta Piṭaka…” S’accorse
della mia espressione smarrita e chiese, con gentilezza: “E lei di cosa si
occupa?”
Dissi, quasi vergognandomene: “Io scrivo…”
“Forse ho letto qualcosa di suo, ma mi perdoni, la mia memoria…”
“Non ho scritto nulla d’importante, lei si sarà concentrato su ben
altri autori…”
“Non sia modesto. Mi dica qualche titolo”.
Glieli dissi, arrossendo. Mi sentivo come se stessi recitando la lista
della spesa davanti agli accademici di Stoccolma che assegnano il Premio Nobel.
Scosse il capo, rammaricato. “Mi spiace…”
“Fa niente…”
Si alzò. “Beh, io devo rientrare. Mi ha fatto piacere parlare con lei”.
“Ha fatto molto piacere anche a me”.
Ci salutammo e lui si avviò lungo il vialetto, appoggiandosi al suo
bastone. Mi accorsi che aveva dimenticato una cosa sulla panchina e lo
rincorsi.
“Mi scusi! Ha scordato questo!”
Il vecchietto prima guardò l’orologio da taschino che gli porgevo, poi me.
“Non l’ho scordato. Non è mio. È suo, temo”.
Mi lasciò, nel frastuono dei giochi dei bimbi e dei cani, con un libro e quell'orologio.