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mercoledì 24 ottobre 2018

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venerdì 23 febbraio 2018

Pietra tutto sommato decadente



Da circa due anni e mezzo trascorro parte del mio tempo in una località d’alta montagna, un luogo di una bellezza incredibile, tra vette che in un arcaico passato erano sommerse dal mare, e che ora sono vestite di candide, gelide nevi perenni. Da lontano sembrano pietre, ma se ti avvicini, scopri imperfezioni e fragilità, fenditure, pietraie, canaloni. Pietra che si spacca, che si frange, che si sbriciola, pietra tutto sommato decadente.

Qua e là, la traccia dell’uomo. Pensare che cent’anni fa abbiano combattuto qui una guerra, su queste creste quasi inaccessibili, in condizioni quasi insostenibili, provoca smarrimento. La retorica di guerra non mi tocca: ciò che vedo è una morte inutile dopo l’altra, un sacrificio insensato dopo l’altro, e mi chiedo: coloro che hanno consentito questa messinscena di sangue, non erano padri, non erano madri? Mi chiedo: con questa facilità hanno mandato al massacro i loro figli?

La retorica dell’anagrafe non mi tocca, così come non mi toccano la finzione dello stato di famiglia et similia. Troppo facile condannare a morte schiere di giovani solo perché “non li conosco”, “non mi sono parenti.” Troppo facile condannare a morte schiere di giovani.

In ogni modo, è tra queste montagne che mi ritrovo di tanto in tanto. La vita dell’uomo scorre, in un certo modo si evolve, mentre loro restano sempre le stesse. Ciò è confortante e spaventoso allo stesso tempo. La somma degli uomini più longevi non raggiunge neanche una frazione dell’esistenza di questi giganti grigi e bianchi che si colorano all’alba e al tramonto. Contemplare qualcosa di così immensamente grande e, almeno ai nostri occhi, eterno, ci dà la misura di ciò che siamo noi, ossia niente, ossia polvere e un alito di vento.

Mi appoggio a loro, certo che sopporteranno anche il mio peso; mi lascio andare con tutto me stesso, e loro mi sostengono. Vorrei essere una pietra tra le pietre, e starmene lassù almeno un po’, almeno un milione di anni, prima di sprofondare; vorrei essere la gemma sulla testa della corona, e vedere la prima e l’ultima luce del sole, e contemplare la vita e il mondo, pietra irraggiungibile, incassata laddove nessun’anima osa avventurarsi.

Nello scenario della mia immaginazione, come fiocchi di neve turbinanti, si muovono i miei personaggi, lottando, inseguendo, dubitando, discutendo, amando. Vivono nelle molteplici possibilità del provvisorio, esistono in uno stato quantistico in attesa di un fascio di luce che li definisca e doni loro una condizione di equilibrio.

Sono (per il momento) condannati a questo purgatorio in parte a causa mia, in parte a causa di un insieme di sconosciuti, le affermazioni dei quali hanno chissà come il potere di alterare il corso degli eventi. Queste parole, immagino che qualcuno le abbia pur scritte, sono ora carezze, ora bastonate; nella maggior parte dei casi sono prive di aiuto e perciò di importanza.

Lo devo a loro, ai miei personaggi, l’ultimo sforzo: accendere la luce su questo caso spinoso, mettere in fila i fatti, raccontare le diverse storie e i diversi punti di vista, concedere la pace a chi ormai è al di là di qualsiasi umano affanno, concedere a chi se lo merita di scendere, finalmente, dalla montagna.



(Rimarranno tutti lì, e un pochino anch’io. Sono nati lì e vivranno per sempre – il per sempre della mia mente – nel piccolo abitato di San Raimondo, nel vicino albergo di lusso Hotel Imperatrice delle Alpi, nella baita isolata, nell’antico monastero ristrutturato, nella galleria scavata dai soldati italiani, in questi luoghi di fantasia, eppure così reali, più reali del reale – il reale della mia mente, delle nostre menti).

A volte, la soluzione è semplice: sparare la musica a palla e mettersi a scrivere.


venerdì 5 agosto 2016

La strada da fare




Camminiamo lungo il bordo della strada, dove l’asfalto si sbriciola mostrando i vecchi strati, dove si accalcano le erbacce e le immondizie. Il sole è a picco e la superficie nera brucia e quasi si scioglie, diventa densa e appiccicosa. Le macchine ci sfiorano. A gran velocità. Non faccio in tempo a cogliere gli sguardi dei conducenti, ma li immagino curiosi, diffidenti, deridenti. Certo, la strada non è fatta per camminare. La strada è per le auto.

Camminiamo. Senza marce da scalare. Senza aria condizionata. Senza poter abbassare i finestrini. Le folate arrivano quando è il vento a deciderlo. E decide anche se sono raffiche fresche che ci portano un po’ di refrigerio, oppure se sono calde come l’alito del deserto. Tra Cisterna di Latina e Latina ci sono soltanto venti chilometri, ma sembrano dieci volte tanto. Mi sembra che il tempo si sia fermato. Mi sembra che lo spazio si sia fermato. Un passo dopo l’altro, ma non avanzo sotto il sole che scotta. Non ho messo la crema solare sulle gambe, pensando che non mi sarei bruciato, e tornerò a casa con delle ustioni. Per i prossimi giorni spalmerò una pomata all’aloe e metterò i pantaloni lunghi. Così imparo.

Con un po’ più di accortezza non mi sarei bruciato. In macchina non mi sarei bruciato. Il navigatore dice che tra Cisterna e Latina ci vogliono quindici minuti, non di più. Noi siamo partiti alle otto e trenta, e arriveremo sei ore più tardi. Percorriamo strade interne. Cerchiamo quelle meno trafficate per sentirci più sicuri. Le auto corrono e sembra di stare a bordo pista di un Gran Premio di Formula 1.

Il corpo si disidrata rapidamente. Le gambe diventano pesanti. Gli alberi che ci regalano la loro ombra sono un dono prezioso. Sotto uno di questi alberi, ci sdraiamo a riposare. Mi sembra di aver attraversato un intero continente, ma sono solo dodici chilometri. Dodici, lungo strade a scorrimento veloce, sterrate tra coltivazioni di kiwi, campi abbandonati, canneti, fossi, cumuli di copertoni. Niente, in confronto a quanto ha camminato Chris. Il suo viaggio è iniziato più di 1300 chilometri fa. 1300 chilometri tutti a piedi. Non posso essere già stanco. Devo tenere duro. Prendo dallo zaino un Gatorade e lo dividiamo. Mezzo litro per quattro persone. Sparisce subito.

Camminiamo.

È questa, la velocità dell’uomo. Il movimento compiuto dall’uomo che sale in macchina e si lascia trasportare dal motore è una scorciatoia. È un inganno.

È anche un dato di fatto. Viviamo nell’epoca dei carburanti fossili. Senza il petrolio, la nostra società non sarebbe come la vediamo oggi. Impossibile, dunque, tornare a cento anni fa. E sciocco. Ma camminare ti offre una prospettiva diversa dalla quale guardare il mondo. Tra Cisterna e Latina ci sono venticinquemila passi. Ciascuno di questi passi mi avvicina alla meta e fa crescere la distanza dal punto di partenza; eppure mi rendo conto che ciascun passo non solo determina il mio futuro, ma ridisegna anche il mio passato.

Il passato è come una statua che è stata scolpita, una statua sulla quale lo scultore non può più posare la punta del suo scalpello. Il passato non è modificabile, il passato è stato e non può più essere. Il modo in cui guardiamo quel passato, invece, cambia. Cambiano gli occhi con cui guardiamo, cambiano le emozioni, e ho l’impressione che allora cambi anche il passato, che cambi a seconda dell’istante presente. Una luce diversa illumina la statua.

L’istante presente è il passo che compio. E poi c’è il passo successivo, e poi il passo dopo ancora. Cammino, vado avanti, ma le strade che percorro sono due: il mio presente e il mio passato. Le percorro contemporaneamente. È tutto dentro di me. Dentro l’uomo che cammina. Fuori c’è una strada assolata, una campagna gialla e immobile, un cielo profondo con un occhio infuocato. Io cammino, e percorro i sentieri della mia anima. Scopro qualcosa di me che prima non sapevo; che prima non vedevo. Perché non ne avevo il tempo, perché non avevo la prospettiva giusta per vederlo.

Ai lati della carreggiata, le sterpaglie sono bruciate. Sparsi intorno ci sono nugoli di bottiglie di birra, il vetro annerito dal fuoco. Alcune sono scoppiate. Sono state gettate dalle auto in corsa, inghiottite dai cespugli che poi sono arsi, e adesso stanno lì, rifiuti, testimonianza d’inciviltà. Ecco, correte, bevete, gettate le vostre birre vuote. Correte, e poi dite che non avete mai tempo. Volete più tempo? Allora rallentate. Camminate.

Un invito obsoleto, che va contro il dogma della velocità sul quale si fonda la nostra epoca. Eppure è paradossale: proprio oggi che abbiamo annullato le distanze (una persona può compiere il giro del mondo in 24 ore, un’informazione può farlo in una frazione di secondo), abbiamo sempre meno tempo.

Il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo. Lo sapevo anche prima della camminata tra Cisterna e Latina, ma quei venticinquemila passi e quelle sei ore sotto il sole me lo hanno ricordato.

Un uomo sta percorrendo l’Italia a piedi.
È partito il 2 aprile di quest’anno, e completerà il suo cammino a febbraio del 2017.
La sua è la più nobile delle azioni: fare del bene.
È un uomo che ho avuto l’onore e il piacere di accompagnare in alcune delle sue tappe.
Leggete qui la sua storia. La storia di #Marta4kids.
Chris, la strada da fare è ancora tanta, ma non sei solo.



domenica 29 novembre 2015

Il negozio di animali




Andai in quel negozio perché sapevo che avevano esemplari di qualità.

Non vi avevo mai effettuato alcun acquisto, ma ne avevo sempre sentito parlare bene. Perché non provare, allora?

Giunsi qualche minuto dopo la chiusura. Il proprietario, gentile, m’invitò ad entrare lo stesso. Lo ringraziai e gli spiegai che desideravo fare un regalo ad una persona speciale. Lui annuì e mi condusse nel retrobottega.

“Questi esemplari sono appena arrivati. Sono magnifici. Lei è il primo cliente al quale li mostro. Non voglio vantarmi perché non è mai una cosa elegante, ma di esemplari così non ne trova da nessuna parte”.

“Sono piccoli”, notai. “Credevo fossero più grandi. Crescono ancora?”

“No, questi sono esemplari adulti. Possono variare come dimensioni, ma non più di tanto. Il maschio è generalmente più grande della femmina. Lei era interessato ad acquistare un esemplare singolo o una coppia?”

“Mah, forse una coppia”.

“Eccellente. È la scelta migliore, mi creda”.

“Una coppia non è… impegnativa?”

“Assolutamente no. Non creda a quello che sente dire in giro. Questi piccolini danno il meglio di sé quando sono in coppia o in gruppo. Sono esserini molto socievoli e se lasciati da soli la maggior parte di loro va incontro a solitudine e depressione”.

“Ma si accoppiano spesso? Non è che ci ritroviamo la casa invasa?”

“Deciderà lei quando farli riprodurre. Se educati a dovere – non è difficile, basta un po’ di pazienza – sanno essere obbedienti. Le assicuro che quando avranno i primi cuccioli, se ne innamorerà anche lei. Questi piccolini sono molto affettuosi e amorevoli nei confronti della propria prole. Guardi, io personalmente ho assistito molte volte a questo rituale ed è sempre una gioia unica”.

“Mmm. Vanno tenuti in gabbia?”

“Sarebbe meglio. Sono intelligenti e curiosi, e tendono a cacciarsi nei guai. Tuttavia, se vuole che si esprimano al massimo delle loro potenzialità, le consiglio di acquistare il kit completo”.

“Cioè?”

“Un ecosistema. Si tratta di un habitat abbastanza grande per farli vivere in totale comfort. Non occupa molto spazio e naturalmente è chiuso così non possono scappare. È la soluzione migliore. Vivono benissimo anche in gabbia, intendiamoci, ma fornendo loro un ecosistema c’è la possibilità di vederli sviluppare quella che in gergo tecnico si chiama civiltà. Non v’è alcuna certezza che la costruiscano, glielo dico per onestà. Ma a tanti clienti è capitato e sono rimasti tutti molto soddisfatti”.

“D’accordo. Sa una cosa? Mi ha convinto. Me ne dia una coppia. E prendo anche un ecosistema”.

“Quali esemplari preferisce?”

“Mah, non saprei. A me sembrano tutti uguali. Li scelga lei. Basta che siano sani”.

“Gentile signore, in questo negozio trattiamo esclusivamente esemplari sani”.

“Mi scusi, non intendevo offenderla. Volevo solo dire che l’esperto è lei e che di sicuro saprà scegliere meglio di me”.

“E l’ecosistema? Quale desidera? O scelgo io?”

“Faccia lei, la prego”.

“Bene. Ecco qua. Il pacchetto completo. E non manchi di farmi sapere se rimarrete soddisfatti”.

Più tardi, dopo la torta, presentammo il regalo alla piccola. Gli occhi le brillavano. Aveva già capito di cosa si trattava. Per forza: la scatola aveva i buchi e scuotendola si udivano i buffi versi prodotti dagli esserini che avevo acquistato al negozio degli animali (mia moglie li aveva visti in anteprima e li aveva trovati deliziosi).

“Dai, apri il regalo”, dissi. Ero impaziente come la piccola.

“Aspetta. Come si dice prima?”, disse la mamma.

“Grazie papà, grazie mamma”.

“Bene. Ora puoi scartare il regalo”.

La felicità fatta persona! Cos’altro potrei dire? Ero felicissimo anch’io!

Riferii alla piccola le raccomandazioni che mi aveva fatto il negoziante. Lei non badò ad una sola parola di ciò che le dissi. Aveva occhi solo per le creaturine appena arrivate. Volle subito tirarle fuori dalla gabbia. Se le pose in grembo e non smise un istante di coccolarle. Si formò immediatamente un legame speciale. Loro la guardavano adoranti e lei già li amava follemente.

“Hai deciso come chiamarli?”, chiese mia moglie.

La piccola sollevò lo sguardo colmo di gioia.

“Sì mamma. Lui si chiama Adamo e lei si chiama Eva”.




lunedì 12 ottobre 2015

L'importanza di Jean-Patrick Manchette





Jean-Patrick Manchette, nato nel 1942, è stato un traduttore, sceneggiatore, critico e scrittore francese. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 ha pubblicato una decina di romanzi entrati nella storia del noir. È scomparso nel 1995 a causa di un male incurabile, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro, “Principessa di sangue”.

Nell’acuto e ironico volume “Le ombre inquiete”, una raccolta di saggi e articoli, Jean-Patrick Manchette racconta di essere stato iniziato alla lettura dei romanzi gialli dalla sua nonna scozzese, appassionata della Série Noire. Da adulto, l’amore per questo genere si è trasformato in un lavoro: Manchette è stato anche traduttore (dall’inglese). Questo gli ha dato la possibilità di leggere e apprezzare i capolavori degli scrittori americani in originale. Manchette non si è mai stancato di sottolineare l’importanza della traduzione. Essa deve essere accurata, sempre, anche quando si tratta di romanzi d’evasione. Ma i gialli sono veramente romanzi d’evasione? Romanzi buoni da leggere in treno, come diceva lo stesso Manchette?

Usando un gioco di parole, si può dire che l’importanza di Manchette è stata quella di comprendere l’importanza del romanzo giallo. Più nello specifico, del romanzo noir, ossia l’hard-boiled, il noir violento americano.

Secondo Manchette, il noir nasce negli Stati Uniti negli anni Venti e si sviluppa lungo il trentennio successivo, fino agli anni Cinquanta, quando le mutate condizioni sociali e politiche decretano la sua morte. L’indiscusso padre fondatore del genere è Dashiell Hammett; grazie a lui e a numerosi altri autori, il noir esce dalle pulp magazine nelle quali era confinato ed invade le librerie con le sue storie a base di piombo e sangue. L’ultimo grande maestro è Raymond Chandler. Se lo stile di Hammett è crudo e diretto, le parole di Chandler si librano su ali poetiche. Leggendo le opere di Hammett pare di assistere ad un incontro di boxe nel quale ogni colpo è permesso, e se è un colpo basso, tanto meglio. Chandler parte invece dalle psicologie dei personaggi, tratteggiate in ogni sfumatura, psicologie dalle passioni violente e inarrestabili. Hammett porta il lettore nell’arena della vita e non gli risparmia alcuna bassezza; le stesse bassezze le ritroviamo in Chandler, ma ammantate di una lirica che ha il sapore della tragedia greca.

La tesi di Manchette è semplice: la letteratura (come ogni altra forma d’arte) rappresenta la coscienza dell’epoca che la produce; nel caso del noir si tratta di una coscienza decisamente sporca. Nel poliziesco tradizionale, spiega Manchette, esiste un ordine sociale che viene turbato dal delitto; con lo smascheramento del colpevole (che tradizionalmente avviene all’ultima pagina), l’ordine viene ristabilito e la buona società può tornare a dormire sonni tranquilli. Nel noir non c’è alcun ordine da ristabilire e il delitto è la pura e semplice conseguenza dello stato delle cose: vale la legge del più forte, la corruzione contamina la società a qualsiasi livello, la criminalità organizzata si è perfettamente integrata nelle istituzioni, diventandone una parte fondamentale. Non è una bella prospettiva, ma, scrive Manchette, le cose stanno così. Su questo sfondo deprimente si muovono gli oppressi e gli sconfitti, miserabili che si sbranano l’un l’altro per poche briciole di pane.

Occorre abbandonare ogni speranza, dunque? No, per fortuna. In mezzo a questo letame, c’è una figura che non si piega: il detective privato. È lui l’unico, vero eroe del noir, l’unico eroe possibile. Non può essere un poliziotto perché il poliziotto fa parte delle istituzioni e dunque è corrotto oppure complice; non può essere un delinquente perché il delinquente ha perso qualsiasi scrupolo e senso morale. Morale: ecco il termine chiave per interpretare la figura del detective privato. Sotto una dura scorza di cinismo e disillusione, il detective privato nasconde un profondo senso etico, una virtù che lo guida nella notte senza fine rappresentata dalla società ingiusta nella quale opera. Il detective privato sa di poter porre rimedio a qualche torto, ma sa di non poterli aggiustare tutti: e dunque gli rimane un’espressione di profonda amarezza sul volto. E nonostante tutto continua ad accogliere i suoi clienti e ad ascoltare le loro bugie, i loro tentativi di manipolarlo.

Abbiamo detto che secondo Manchette il noir muore negli anni Cinquanta. Muore perché è stato la fotografia di un’epoca, un’epoca ormai giunta al termine. Il proibizionismo, il gangsterismo, tutto è cambiato dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda. Nuovi generi e nuovi eroi si affacciano alla ribalta (la spy-story e gli agenti segreti come James Bond, ad esempio).

Il noir, il vero noir è davvero finito? Molti giurano di no. È la letteratura della crisi, è il fantasma che si aggira nella nostra società, turbando le nostre coscienze. Ha dato origine a mille sottogeneri diversi: dal noir metropolitano al police procedural al giallo storico (basta farsi un giretto su Wikipedia per trovare tutta la discendenza). Ai lettori è rimasta la voglia di leggere storie forti, che tolgono il fiato come un pugno nello stomaco; e negli scrittori è ancora viva la volontà di misurarsi con un genere che forse meglio di qualsiasi altro è in grado di fornirci una radiografia della nostra società, una radiografia impietosa, un intreccio soffocante tra affari, politica, corruzione, delinquenza; un terreno di battaglia, tuttavia, nel quale è ancora possibile trovare un eroe che incarni il desiderio di un mondo più giusto.